Rifiuti organici: il cortocircuito della raccolta senza impianti

di Luigi Palumbo 21/12/2016

Con le sue 6 milioni di tonnellate raccolte in maniera differenziata, la frazione organica dei rifiuti urbani (forsu) si conferma anche nel 2015 come la porzione principale degli rsu complessivamente avviati a recupero in Italia, giungendo a rappresentarne poco meno della metà. Dal 1993, anno della nascita in Italia delle prime filiere per il recupero dell’organico, le percentuali della raccolta separata di scarti alimentari, imballaggi compostabili e sfalci e potature del verde urbano hanno conosciuto un incremento costante: nel 2010 rappresentavano il 36,6% di tutti i rifiuti differenziati, passando al 42,7% nel 2014 fino al 43,3% del 2015. Complessivamente, si legge nel rapporto Ispra rifiuti urbani 2016, nel 2015 i sistemi di differenziata messi a punto dalle amministrazioni locali hanno intercettato 6 milioni 71mila tonnellate di frazione organica. Un aumento del 6,1% sull’anno precedente, frutto dell’incremento della raccolta in tutte e tre le principali macroaree del Paese: +4,7% al Nord, +10,4% al Centro, +6,1% al Sud.

«I dati sulla raccolta – spiega Michele Giavini, senior expert del Consorzio italiano compostatori (Cic) – ci collocano ad un livello di eccellenza a livello europeo e addirittura mondiale. Sebbene in principio sia stata introdotta soprattutto al Nord, la raccolta differenziata si sta espandendo anche nelle Regioni del Centro-Sud e fornisce materia ad una filiera di qualità che può contare ormai su più di 250 impianti in tutta Italia».

Proprio il dato territoriale, però, mostra come dietro il generalizzato aumento della raccolta dell’organico si nascondano ancora profonde differenze tra le varie aree della Penisola: si va dalle 3,4 milioni di tonnellate raccolte al Nord, alle 1,2 del Centro, fino alle 1,5 milioni di tonnellate del Sud. Nonostante i numeri in aumento infatti, restano ancora tante, soprattutto al Sud, le Regioni in ritardo con l’attivazione di sistemi di raccolta differenziata dell’organico in ambiti territoriali più o meno estesi: dalla Sicilia alla Calabria, dalla Basilicata al Lazio, fino alla Campania. Regioni che soffrono l’assenza di una rete capillare di impianti necessari alla effettiva valorizzazione del rifiuto raccolto in maniera separata, ovvero centri di compostaggio e di digestione anaerobica, che dalle frazioni organiche ricavano ammendante e biogas.

«Gli impianti arrivano in conseguenza dell’avvio della raccolta differenziata – osserva Giavini – ma non tutte le Regioni del Sud sono in ritardo e anzi non mancano le esperienze virtuose. Si sta procedendo molto bene in Puglia, ad esempio, o in Sardegna, dove qualche anno fa un’iniziativa virtuosa di incentivazione della raccolta differenziata finalizzata al compostaggio ha dato risultati estremamente positivi».

Stando al Rapporto Ispra, sul territorio italiano sono attualmente presenti 263 impianti di compostaggio e 46 impianti di digestione anaerobica. Analizzando la distribuzione degli impianti effettivamente operativi in Italia per macroaree, risulta che il 66% degli impianti è situato nel Nord Italia, il 13% al Centro e il rimanente 20% al Sud. Percentuali che sembrano riprodurre proprio la distribuzione delle quantità intercettate in maniera differenziata nelle tre macroaree territoriali. E non solo perchè, come giustamente osserva Michele Giavini, gli impianti arrivano quando arriva la differenziata, ma anche perchè loro carenza mette a rischio la sostenibilità economica dei sistemi di raccolta, rischiando di innescare dei veri e propri cortocircuiti.

Senza centri di trattamento capaci di rispondere al principio di prossimità, infatti, le amministrazioni locali si vedono costrette a spedire il rifiuto differenziato verso impianti al di fuori del proprio ambito territoriale, sobbarcandosi oltre ai costi per il trattamento anche quelli per il trasporto. Così, da poche decine di euro il costo per una singola tonnellata di umido può arrivare anche a superare i 160 euro. Costi che poi finiscono inesorabilmente per gravare sulla tassa rifiuti. Con esiti ai limiti del paradossale, dal momento che, in assenza di centri di compostaggio e biodigestione, più la raccolta differenziata della frazione organica aumenta, più aumentano i costi complessivi di avvio a recupero e più aumenta la tassa rifiuti.

Come in Campania, una delle Regioni dove negli ultimi anni la raccolta dell’organico è cresciuta di più, passando dalle 494mila tonnellate del 2011 alle 685mila tonnellate del 2015, e che però è anche una delle più sguarnite sul fronte impiantistico. Non deve stupire dunque il fatto che, secondo Cittadinanzattiva, nel 2016 la Campania detenga lo scettro della tassa rifiuti più alta d’Italia, con un tributo medio da 427 euro annui. Quanto il costo di gestione dell’organico contribuisca a far lievitare l’importo complessivo del tributo lo spiega invece l’Ispra: «Il costo di gestione della raccolta differenziata della frazione umida risulta, a livello nazionale, pari a 22,09 eurocentesimi/kg a fronte di un conferimento annuo di 72,5 kg/abitante, mentre il costo annuo pro capite è di 15,87 euro». La Campania, invece, si legge nel rapporto, presenta «un costo per kg di 29,86 eurocentesimi/kg ed un costo annuo pro capite di 36,80 euro». Più del doppio della media pro capite nazionale.

L’importo della tassa insomma, in assenza di impianti e di un sistema di misurazione puntuale delle quantità di rifiuti prodotte, piuttosto che riflettere il comportamento virtuoso di cittadini ed amministratori e quindi incentivarlo, finisce invece per aumentare. Scoraggiando i primi e con il rischio che i secondi preferiscano altre soluzioni, più economiche e meno orientate alla sostenibilità ambientale: dal non attivare la raccolta separata dell’organico al non spingerla con il porta a porta per mantenerne basse le quantità e contenere i costi di raccolta. Fino al paradosso: raccogliere l’umido in maniera differenziata salvo poi smaltirlo, con notevole risparmio, in discarica. E non è un caso che delle 6,1 milioni di tonnellate raccolte a livello nazionale nel 2015, solo 5,2 risultino avviate ad impianti per il trattamento dell’organico. Il milione restante, plausibilmente, è finito proprio negli sversatoi. Come accade ad esempio in diversi Comuni della Sicilia, fenomeno abbondantemente documentato dalla Commissione bicamerale ecomafie nella relazione sulle criticità del ciclo regionale di gestione dei rifiuti.

«Oggi l’umido lo portiamo in discarica – raccontava qualche settimana fa a LiveSicilia.it Paolo Amenta, sindaco di Canicattini Bagni e vicepresidente dell’Anci – lo stesso fanno altri comuni vicini, come Floridia, Palazzolo, Buccheri. E il rifiuto entra in discarica come indifferenziato». «Anche noi, che da un anno e mezzo abbiamo avviato la differenziata, siamo costretti a gettare i rifiuti in discarica per la parte organica, abbiamo sollevato la questione ma senza avere risposte», diceva invece a Repubblica Matteo De Marco, sindaco di Villafranca Tirrena, nel messinese. Come se non bastasse, i pochi impianti di compostaggio attivi sull’isola applicano tariffe di conferimento uguali a quelle pagate dai Comuni per portare l’indifferenziato in discarica (circa 90 euro a tonnellata). Cosa che vanifica di fatto ogni possibilità di trasformare le buone pratiche di differenziata in un risparmio per i cittadini.

Eppure nel nostro ordinamento non mancano vincoli e limitazioni al conferimento in discarica dei rifiuti organici. La legge “Green Economy”, l’ex collegato ambientale, entrata in vigore lo scorso 2 febbraio, obbliga ad esempio le regioni ad adottare, entro il 2 febbraio 2017, programmi di riduzione dei rifiuti biodegradabili da collocare in discarica, fissando una serie di obiettivi: meno di 173 kg/pro capite entro il 2021, meno di 115 entro il 2024, meno di 81 entro il 2031. La misura, per quanto necessaria, ha però il sapore amaro della beffa, visto che gli stessi target erano stati introdotti nel nostro ordinamento già nel 2003 con il recepimento della direttiva europea 1999/31/CE sulle discariche di rifiuti, e che l’ex collegato ambientale si limita semplicemente a differirli di tredici anni. Nella speranza che, almeno stavolta, qualcuno decida di vigilare sul loro raggiungimento. Perchè sebbene la media nazionale di frazione biodegradabile smaltita in discarica nel 2015 risulti pari a 77 kg/abitante, al di sotto dell’obiettivo degli 81 kg fissato originariamente dalla normativa al 2018, stando al rapporto Ispra in Sicilia nel 2015 sono finiti in discarica 230 kg/abitante di rifiuti organici, 244 in Molise, 191 in Valle d’Aosta e 179 nelle Marche. Ma lontane dal target restano anche Toscana, Puglia, Calabria, Umbria e (anche se di poco) Emilia Romagna.

Questo perchè, in assenza di controlli e sanzioni per il mancato adeguamento degli enti locali agli standard di legge, per molte delle Regioni in ritardo lo smaltimento in discarica e la mancata attivazione della differenziata dell’organico, pur derogando alla normativa nazionale e ai dettami Ue, hanno continuato per anni a rappresentare soluzioni più comode di quanto non lo fosse investire – in termini economici, o anche solo politici – sull’apertura di nuovi impianti. Cosa del resto non semplice in Italia, dove anche i centri di compostaggio o biodigestione, sebbene meno impattanti degli inceneritori, non di rado vengono avversati dalle comunità locali. Senza contare le pastoie burocratiche nelle quali affondano con regolarità i procedimenti autorizzativi, poco importa che si tratti di iniziative pubbliche o private.

Torniamo al caso della Campania dove, come abbiamo visto, all’aumento impressionante della raccolta non è corrisposto un adeguato ampliamento della dotazione impiantistica. La capacità di trattamento dell’organico in Regione, si legge nella proposta di aggiornamento del Piano rifiuti approvata solo pochi giorni fa dal Consiglio regionale, attualmente oscilla tra le 56mila e le 190mila tonnellate annue. Tant’è vero che, spiega sempre Ispra, dei rifiuti organici raccolti nel 2015 solo la decima parte, pari a circa 71mila tonnellate è stata trattata entro i confini regionali, mentre le rimanenti 614mila tonnellate di forsu, causa mancanza di impianti, sono state spedite in altre Regioni. Al Nord, in impianti in Veneto, Emilia Romagna e Lombardia. Ma anche al Sud, in Puglia e Sicilia. A conti fatti, considerando un costo medio di 165 euro a tonnellata, la Campania, tramite i suoi contribuenti, per esportare la forsu ha speso nel 2015 la bellezza di 101 milioni di euro. Ai quali vanno aggiunte le penalità da 120mila euro al giorno inflitte dalla Corte di giustizia europea nell’ambito della procedura d’infrazione per le inefficienze del ciclo regionale dei rifiuti: tra queste anche e soprattutto quelle legate alla carenza di centri di trattamento della forsu.

Insomma, che alla Campania – e alle altre Regioni in ritardo – servano impianti per l’umido lo chiede, oltre all’Europa, anche il portafogli dei contribuenti. Non a caso la Campania è anche la prima Regione nella speciale classifica stilata dal Ministero dell’Ambiente nel decreto attuativo dell’articolo 35 dello Sblocca Italia per l’individuazione, su tutto il territorio nazionale, del fabbisogno residuo di impianti di recupero della frazione organica dei rifiuti urbani. Misura meno nota della sua chiacchieratissima omologa sugli impianti di incenerimento, ed accolta con favore dagli addetti ai lavori, che sperano possa imprimere la necessaria accelerazione ad un mercato troppo spesso imbrigliato dall’inerzia delle amministrazioni locali e dai lacci e lacciuoli della burocrazia.

Secondo la ricognizione effettuata dal Ministero, della quale le Regioni dovranno tenere conto in fase di pianificazione dei cicli di gestione, la Campania avrebbe bisogno di capacità di trattamento annua oscillante tra le 767 e le 884mila tonnellate. Subito dopo la Sicilia (348-450mila tonnellate annue stimate) e il Lazio (tra le 324 e le 442mila). Soltanto cinque Regioni sono risultate già pienamente dotate delle strutture necessarie (Valle D’Aosta, Veneto, Friuli, Umbria e Sardegna) mentre per altre tre la necessità è solo parzialmente soddisfatta o comunque limitata, sia pure in prospettiva (Piemonte, Emilia Romagna e Puglia).

Risolta, si fa per dire, la questione impianti, resta però da garantire stabilità alla filiera. Perchè, come si legge nel dossier “L’Italia del Riciclo 2016”, lo sviluppo del comparto del trattamento dell’organico «non è dipeso da dinamiche di mercato delle materie prime o dai costi energetici internazionali, quanto piuttosto dall’esigenza degli Stati membri di ottemperare a specifici dettami di protezione ambientale in materia di smaltimento dei rifiuti in discarica e di aumento delle quote di recupero materiale di rifiuti urbani». Ciò significa che la filiera del riciclo della forsu è nata per esigenze di tutela ambientale e non per esigenze di mercato, e che quindi le sole leggi della domanda e dell’offerta non bastano a garantirne la sostenibilità economica. In parole povere, lo sviluppo della filiera non può prescindere dall’adozione di efficaci misure di supporto. Due su tutte: vincoli stringenti alla gestione dei rifiuti organici ed incentivi che stimolino al tempo stesso gli investimenti e la domanda di mercato di ammendante compostato, visto che il biogas da digestione anaerobica è già entrato, seppur di recente, nel novero delle fonti energetiche rinnovabili che possono godere di incentivo statale.

La legge “Green Economy” sembrerebbe agire proprio su questi due fronti. Dei target per la riduzione dei conferimenti in discarica (o meglio del loro differimento) si è già detto, mentre sul piano degli stimoli alla domanda di mercato la legge punta sui cosiddetti “Acquisti verdi”, lo strumento normativo che detta l’obbligo per la Pubblica amministrazione di acquistare beni e servizi che rispondano a precisi parametri di compatibilità e sostenibilità ambientale. L’ex collegato prevede, tra l’altro, l’introduzione obbligatoria di Criteri ambientali minimi nelle gare d’appalto per la gestione dei rifiuti urbani, obbligando i Comuni fino a 100mila abitanti ad effettuare la raccolta differenziata della frazione organica porta a porta per almeno il 70% delle utenze, e l’acquisto obbligatorio di ammendanti compostati nei servizi di gestione del verde pubblico.

Il problema però è che il legislatore, se da un lato punta a dare stabilità alla filiera, dall’altro rischia invece di azzopparla. L’articolo 41 del cosiddetto “Collegato agricoltura” ha infatti mutato da rifiuto a sottoprodotto la natura giuridica di sfalci e potature dal verde urbano (categoria che rappresenta circa un terzo dei rifiuti attualmente trattati negli impianti di compostaggio italiani), autorizzandone l’utilizzo negli impianti di teleriscaldamento a biomassa e scatenando l’ira dei compostatori. Le ramaglie, che contengono lignina, vengono infatti utilizzate negli impianti di compostaggio per dare corpo all’ammendante e la concorrenza degli impianti a biomassa rischia di rendere più complesso, e quindi più costoso, il loro reperimento sul mercato. Circostanza che, si legge nel dossier “L’Italia del Riciclo 2016”, risulta «particolarmente evidente negli impianti del Sud Italia» e che rischia di tradursi «nell’immediato aumento dei costi di compostaggio, soprattutto per la frazione umida». Il legislatore italiano, si sa, non ha mai brillato per coerenza.

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