Centrale nucleare del Garigliano: smantellato il camino. Ora tocca al reattore

di Luigi Palumbo 14/11/2017

Non resta che l’iconica sfera bianca disegnata nel 1959 da Riccardo Morandi, quella che ancora oggi ospita la sala del reattore, a segnare il suggestivo skyline della ex centrale del Garigliano, e a ricordare che lì, in quell’ansa del fiume al confine tra Lazio e Campania, dal 1964 fino al 1982 l’energia nucleare veniva trasformata in elettricità. Dell’imponente camino, 95 metri di calcestruzzo a strisce rosse e bianche, non rimane oggi che una manciata di calcinacci. Nel giro di qualche giorno, non resteranno nemmeno più quelli.

Si stanno concludendo proprio in queste ore infatti le ultime operazioni di demolizione della imponente struttura tronco conica che serviva a disperdere il vapore prodotto dal ciclo elettronucleare. Al suo posto verrà installato un camino d’acciaio alto tre volte meno, necessario per il prosieguo delle attività di decommissioning, ovvero lo smantellamento definitivo della ex centrale. Secondo i piani di Sogin, l’ente di Stato responsabile della dismissione delle ex installazioni nucleari italiane e della gestione in sicurezza delle scorie radioattive, le operazioni dovrebbero concludersi entro il 2028.

«È il primo grande elemento visibile dell’impianto ad essere decontaminato e demolito – spiega Severino Alfieri, direttore del decommissioning delle centrali – nel frattempo però stiamo proseguendo con lo smantellamento di componenti non visibili dall’esterno come il circuito acqua-vapore dell’edificio turbina. Si tratta di attività interne non meno importanti della demolizione del camino, anche se è fuori discussione che quest’ultima abbia avuto un impatto maggiore. Di fatto la fisionomia dell’impianto ne esce profondamente modificata. Cosa che si aggiunge all’estrema complessità dell’intera operazione».

E in effetti, i numeri comunicati da Sogin ne restituiscono in maniera plastica la portata: quattro anni di lavori, dieci milioni di euro investiti, 830 tonnellate di materiale riciclabile prodotto dalla demolizione (tra calcestruzzo e acciaio), mentre 7 metri cubi di rifiuti radioattivi, «a bassissima intensità» specifica Alfieri, saranno stoccati nel deposito temporaneo “D 1” allestito nel perimetro della centrale, in attesa di essere trasferiti al futuro Deposito Nazionale.

Senza dimenticare che prima di giungere alla demolizione vera e propria, si è passati per una delicatissima fase di decontaminazione tramite “scarifica”, ovvero il raschiamento delle pareti interne del camino, effettuata con un robot appositamente disegnato e realizzato in Italia. Come italiane sono tutte le soluzioni progettuali e tecnologiche fin qui adottate, precisa Sogin. Il cui obiettivo principale, accanto allo smantellamento in sicurezza delle installazioni nucleari nostrane, resta quello di creare una vera e propria filiera del decommissioning “made in Italy”, da lanciare su un mercato internazionale ricco di opportunità.

Un momento di svolta, in quest’ottica, sarà rappresentato dal cosiddetto “attacco al vessel”, ovvero lo smantellamento di un reattore nucleare. Un’operazione mai tentata fino ad ora in Italia e che il cda di Sogin ha ambiziosamente messo in cantiere per il 2018. Proprio alla ex centrale del Garigliano. «Dal punto di vista tecnico, l’attacco al vessel è l’operazione più complessa e significativa di ogni progetto di decommissioning – spiega Alfieri – al Garigliano partirà l’anno prossimo e durerà a lungo. Ma alla fine darà modo a Sogin e alle imprese italiane coinvolte nel processo di acquisire un know how fondamentale per giocare da protagonisti sul mercato globale».

Perchè il decommissioning di una installazione nucleare possa però dirsi completato, condizione che in gergo tecnico si indica con l’espressione “green field”, le direttive Euratom vigenti prescrivono che i rifiuti radioattivi prodotti nel corso delle operazioni di smantellamento vengano rimossi dal sito e stoccati in sicurezza in una struttura unica, il Deposito Nazionale, appunto. Una struttura fondamentale, della quale però l’Italia non è stata fino ad oggi in grado di dotarsi.

Al momento infatti l’iter per la sua costruzione è fermo, nell’attesa che i Ministeri dell’Ambiente e dello Sviluppo Economico rilascino il nulla osta congiunto alla pubblicazione della cosiddetta Cnapi, la Carta nazionale delle aree potenzialmente idonee ad accogliere la struttura, messa a punto nel 2014 da Sogin e da allora in attesa del via libera ministeriale. Che, stando alle parole del Ministro dello Sviluppo Carlo Calenda, dovrebbe arrivare entro la fine dell’anno, dando finalmente il via al lungo e delicato processo di confronto con le comunità locali per giungere nel giro di quattro anni alla scelta quanto più possibile condivisa del sito che dovrà ospitare il Deposito.

«In assenza del Deposito – chiarisce Alfieri – andremo avanti con le operazioni di smantellamento delle centrali fino a raggiungere il “brown field”, ovvero la condizione per cui la radioattività non sarà più nelle strutture e nelle componenti residue dell’impianto, ma solo nei depositi temporanei per le scorie allestiti sui vari siti. I nostri depositi sono stati costruiti prevedendo una durata tecnica di circa cinquant’anni. Va da sé che all’interno di questa finestra dovremo necessariamente prelevare i rifiuti stoccati e trasferirli al futuro Deposito Nazionale». Nella speranza che mezzo secolo sia un tempo più che sufficiente. Coi ritmi della burocrazia (e della politica) italiana, così come con le scorie radioattive, si sa, c’è poco da stare tranquilli.

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