Energia, paradosso Italia: nel 2022 abbiamo importato più carbone ma anche esportato più CSS

di Luigi Palumbo 18/01/2024

Per far fronte agli effetti della guerra in Ucraina nel 2022 l’Italia ha importato, e bruciato, il 57% di carbon fossile in più. Il problema è che nel frattempo sono aumentate del 55% anche le esportazioni di combustibile da rifiuti. Nell’anno della peggiore crisi energetica della storia recente, insomma, abbiamo continuato a regalare energia agli altri


Nell’annus horribilis dell’energia, segnato dall’affannosa ricerca di fonti alternative a gas e petrolio russi e dall’impennata di prezzi di mercato e bollette, l’Italia ha aumentato di oltre il 50% le esportazioni all’estero di combustibile prodotto dai rifiuti urbani. Regalando di fatto energia agli altri, che hanno così potuto utilizzarla anche per tamponare gli effetti della congiuntura negativa. A differenza nostra, che per rispondere alla crisi scatenata dal conflitto in Ucraina nello stesso periodo abbiamo invece incrementato – in uguale proporzione – le importazioni di carbone. Non è bastata la peggiore crisi energetica della storia recente a far decollare il mercato del CSS, il Combustibile Solido Secondario ricavato dalle frazioni non riciclabili dei rifiuti urbani e speciali, soprattutto carta e plastica. Nel 2022, riporta l’ultimo rapporto rifiuti urbani di ISPRA, l’Italia ne ha esportate oltreconfine più di 245mila tonnellate, in aumento del 55% sull’anno precedente, quando le tonnellate inviate in altre nazioni erano state 157mila. Destinazioni principali l’isola di Cipro (oltre 80mila tonnellate), il Portogallo (circa 35mila tonnellate), l’Austria (oltre 28mila tonnellate) e la Grecia (oltre 25mila tonnellate).

Un autentico paradosso. Nonostante l’elevato potere calorifico del CSS – soprattutto nella versione CSS-c o ‘end of waste’, ovvero la versione di fascia più elevata – lo renda il sostituto ideale ai fossili utilizzati dall’industria energetica nazionale e da quella del cemento, con benefici sia in termini di emissioni che di costi d’approvvigionamento, nel 2022 i due settori hanno continuato ad alimentare i propri cicli produttivi quasi esclusivamente con combustibili tradizionali d’importazione. E anzi, visto che per far fronte alla crisi del gas russo le sei centrali a carbone operative a livello nazionale hanno marciato a pieno regime – passando da 14 a 25,9 TWh (+82%), secondo l’ultima relazione energetica del Ministero dell’Ambiente – le importazioni del carbone necessario ad alimentarle sono addirittura aumentate del 57%, passando da 6,2 a poco meno di 10 milioni di tonnellate. Un’impennata della domanda che, almeno in parte, avremmo potuto soddisfare con il CSS prodotto dagli impianti italiani “sottraendolo ai mercati esteri, ben più pragmatici e lungimiranti dei nostri”, sottolinea Giuseppe Dalena, presidente di AIREC, l’associazione dei produttori di combustibili secondari.

L’utilizzo del CSS al posto del carbone nelle centrali termoelettriche, pur consentito dalla normativa, resta un territorio inesplorato. “La motivazione potrebbe risiedere negli investimenti necessari ad adeguare gli impianti – spiega Dalena – ma non si può escludere anche una componente più a valenza psicologica e culturale legata alla derivazione da rifiuto del CSS, che continua a rimanere un tratto indelebile anche quando si parla di ‘end of waste'”. Tanto che negli ultimi anni una sola centrale, quella di Fusina a Venezia, ha utilizzato combustibile da rifiuti al posto del carbone. “Un’esperienza virtuosa – dice – che nel 2021 ha prodotto 20mila MWh di energia elettrica utilizzando 30mila tonnellate di CSS, in un territorio in cui effettivamente il ricorso alla discarica è divenuto residuale”. Piuttosto che guardare alle grandi centrali, chiarisce tuttavia il presidente di AIREC, bisognerebbe agevolare l’utilizzo di CSS nei piccoli impianti di cogenerazione. “Oggi – spiega – la normativa prevede che il CSS possa essere utilizzato in centrali che abbiano una capacità, tra termica ed elettrica, di almeno 50 MW. Una limitazione che deriva dalla normativa AIA, piuttosto datata. Abbassando la soglia non dico a 1 ma a 5 MW apriremmo l’utilizzo del CSS anche all’autoproduzione di energia”. E invece, se si escludono le quantità di CSS bruciate nei termovalorizzatori di rifiuti, nel 2022 le quantità utilizzate in coincenerimento per produrre elettricità hanno superato di poco le 40mila tonnellate.

Le cose non vanno meglio sul fronte del cemento, dove nel 2022, complice la contrazione della produzione legata ai prezzi folli dell’energia, le quantità di CSS utilizzate in sostituzione al combustibile tradizionale (soprattutto pet coke) si sono addirittura ridotte, passate da 249 a 237mila tonnellate per il CSS e da 72mila a 64mila tonnellate per il CSS-c, la versione disciplinata dal decreto del Ministero dell’Ambiente 22 del 2013, capace di offrire le migliori prestazioni sia sotto il profilo del potere calorifico che delle emissioni. Il tasso di sostituzione resta così inchiodato al 22,5%, a fronte del 53,3% medio europeo e del 76,1% fatto registrare dall’Austria, non a caso tra i principali importatori del CSS italiano. “La strategia di decarbonizzazione del settore – chiarisce Nicola Zampella, direttore generale di Federbeton – attribuisce ai combustibili alternativi una riduzione delle emissioni di CO2 del 12%. Nonostante l’industria nazionale sia già pronta per raggiungere i tassi di sostituzione dei Paesi europei più virtuosi, i risultati non sono quelli sperati. Si tratta di superare i pregiudizi (le ben note sindromi NIMBY – Not In My Back Yard e NIMTO – Not In My Term of Office) e gli ostacoli burocratici”.

Ostacoli che solo in parte sono stati rimossi dalle semplificazioni introdotte nel 2021 per agevolare l’utilizzo di CSS-c. Perché se è vero, come scrive il Comitato nazionale di vigilanza sul CSS ‘end of waste’ nella sua ultima relazione annuale, che l’iter più rapido introdotto dall’allora governo Draghi “ha certamente agevolato il regime autorizzativo degli impianti che intendevano utilizzare CSS-C in sostituzione di combustibili convenzionali o di rifiuti”, è altrettanto vero che “ad oggi – spiega Zampella – non c’è un’applicazione omogenea sul territorio delle semplificazioni amministrative che dovrebbero rendere più rapido l’iter autorizzativo, mantenendo inalterate le garanzie di controllo e la trasparenza. I tempi e gli esiti delle richieste di autorizzazione – dice – rimangono quindi incerti, a discapito di una soluzione che rappresenta un’opportunità per l’ambiente, la collettività e l’indipendenza energetica del Paese“.

Se la domanda nazionale non decolla, sul fronte dell’offerta le imprese del CSS, spiega AIREC, sono pronte già oggi a mettere sul mercato almeno 1 milione di tonnellate tra CSS rifiuto e CSS-c. “Un quantitativo importante, potenzialmente disponibile per sostituire combustibili tradizionali fossili di cui notoriamente non disponiamo e che invece continuiamo a ignorare – aggiunge Dalena – mentre gli impianti all’estero sono sempre più affamati di CSS ma anche di scarti non riciclabili che non riusciamo a trattare e recuperare per insufficienza di destini finali”. Oltre al CSS italiano, infatti, all’estero finiscono anche i rifiuti che non trovano spazio negli impianti nazionali di recupero. Nel solo 2022, riporta sempre ISPRA, abbiamo pagato per inviare a inceneritori e cementifici oltreconfine più di 280mila tonnellate di scarti prodotti dal trattamento meccanico biologico delle frazioni non riciclabili degli urbani. “Occorre ricordare che per questi rifiuti paghiamo i costi di trasporto all’estero, i costi di smaltimento o recupero e perdiamo energia – chiarisce il presidente di AIREC – che per l’impianto di destino diventa invece il valore aggiunto, oltre alla tariffa d’ingresso: una bella beffa”.

1 Commento su "Energia, paradosso Italia: nel 2022 abbiamo importato più carbone ma anche esportato più CSS"

  1. Alberto Mengozzi ha detto:

    Bisognerebbe sostenere anche i piccoli impianti di pirolisi alimentati con i residui di legno o cartone o con scarti agricoli (www.tepj.it, info@tepj.it), molto efficienti, che consentono la riduzione della CO2 mediante la produzione del biochar, e sono molto adatti ad autoproduzione o a CER, potendo nei sistemi di “microgrid” distribuire agevolmente anche il calore

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