Sono quattro le procedure d’infrazione aperte ai danni dell’Italia per il non corretto trattamento delle acque reflue in circa mille agglomerati urbani ad ogni altezza dello Stivale. A frenare gli investimenti burocrazia e mancanza di competenze tecniche
Quasi mille agglomerati urbani non conformi alle direttive europee, quattro procedure d’infrazione di cui tre già giunte a sentenza di condanna da parte della Corte di Giustizia europea, la più recente delle quali arrivata solo pochi giorni fa mentre per l’infrazione più antica, risalente addirittura al 2004, paghiamo dal 2017 sanzioni semestrali da decine di milioni di euro. L’Italia conferma il triste primato di Paese maglia nera in Ue per il trattamento delle acque reflue urbane, con criticità diffuse ad ogni altezza dello Stivale, sebbene concentrate prevalentemente nel Mezzogiorno. Tra le Regioni inadempienti spiccano Sicilia e Calabria, rispettivamente con 251 e 188 agglomerati nell’ambito delle quattro procedure, seguite dalla Campania, sopra i 100 agglomerati. Esattamente come la Lombardia.
Il quadro delle irregolarità insomma va ben oltre la classica dicotomia Nord-Sud configurandosi come “a macchia di leopardo, senza distinzioni di latitudine”, stando alle parole utilizzate dal Commissario di governo per la depurazione Maurizio Giugni nel commentare la sentenza della Corte di Giustizia europea che una settimana fa ha condannato l’Italia per l’inadeguatezza delle reti fognarie e degli impianti di trattamento in 595 agglomerati urbani, piccoli centri con popolazione compresa tra i 2mila e i 10mila abitanti distribuiti in più di dieci Regioni. Si tratta di più della metà dei 939 agglomerati complessivamente interessati dalle quattro procedure d’infrazione, “segno che – ha osservato Giugni la mancanza di adeguate infrastrutture idriche non fa differenze tra i territori e spesso può coincidere con la difficoltà dei piccoli comuni di far fronte da soli alle complessità tecniche e procedurali che attengono alla realizzazione di queste opere, quota parte del servizio idrico integrato”.
Difficoltà registrate anche dal Laboratorio Ref in una recente analisi condotta sugli investimenti dedicati al ciclo idrico nell’ultimo biennio. A fronte di un netto miglioramento nella capacità dei gestori di ‘mettere a terra’ gli interventi pianificati, passata “dai 40 euro/ab/anno del 2016 ai 56 euro/ab/anno del 2019, in crescita del 39% in 3 anni”, secondo Ref restano ritardi dovuti “alle procedure amministrative per l’affidamento dei lavori e il loro iter autorizzativo” ma anche “alla mancanza di risorse umane, con procedure selettive e concorsuali infruttuose, strutture tecniche con deficit di competenze, ritardi di varia natura dovuti a riorganizzazioni interne”. Un quadro che resta critico, spiega il Laboratorio, soprattutto rispetto alla qualità dell’acqua erogata e depurata e all’adeguatezza delle fognature.
Criticità che di certo non agevolano il percorso verso la chiusura delle quattro infrazioni europee, a partire da quella per la quale nel 2017 l’Italia è stata condannata al pagamento di una sanzione da 165mila euro al giorno, da versare in rate semestrali costate fin qui circa 170 milioni di euro. Dai 75 agglomerati inizialmente coinvolti si è passati a 68, 45 dei quali in Sicilia, con la sanzione semestrale ridottasi dagli iniziali 30 milioni di euro ai 22,7 quantificati dalla Commissione europea per il periodo tra dicembre 2019 e maggio 2020. Un milione in meno di quanto versato per i sei mesi precedenti, segno di un lavoro che, sebbene lentamente, comincia a restituire i primi significativi frutti. Senza mai dimenticare, ha precisato il Commissario Giugni, che anche se per le altre tre procedure d’infrazione non si è ancora arrivati alla definizione di sanzioni pecuniarie “c’è però già un costo che stiamo pagando da tempo, ed è quello sull’ambiente e la qualità delle acque dei fiumi e dei mari”.