Ecco come la burocrazia frena la transizione ecologica della moda italiana

di Redazione Ricicla.tv 15/10/2021

Autorizzazioni lumaca, labirinti normativi e adempimenti onerosi: secondo la CNA la burocrazia sta frenando la transizione ecologica di un settore chiave della manifattura nostrana, quello della moda

Fino a 900 giorni per ottenere il rilascio di un’autorizzazione, migliaia di euro da spendere per sostenere i costi degli adempimenti obbligatori legati alla gestione dei rifiuti, ostacoli normativi che favoriscono lo smaltimento in discarica e disincentivano le attività di recupero. Aprendo “margini di incertezza che danno facilmente adito a numerosi illeciti in campo ambientale”. Con le sue 58mila aziende, che rappresentano il 15% dell’intera manifattura italiana, il settore della moda potrebbe dare un contributo strategico alla transizione ecologica del sistema produttivo italiano, ma l’ipertrofia normativa e gli appesantimenti amministrativi stanno frenando la svolta circolare del comparto. Lo denuncia la CNA nell’ultima edizione dell’Osservatorio burocrazia realizzato grazie al coinvolgimento di 200mila imprese, 900mila addetti, 51 sedi territoriali e 24 distretti moda.

“Dall’indagine – spiega Barbara Gatto, responsabile green economy della CNA – emerge chiaramente che la sburocratizzazione rappresenta un tassello importante per la transizione green. Dalla fase di produzione a quella della gestione degli scarti le imprese incontrano costantemente ostacoli burocratici che le allontanano dal percorso virtuoso verso la transizione green a discapito dell’ambiente”. A partire dal calvario delle autorizzazioni. L’introduzione nel 2013 dell’AUA (Autorizzazione Unica Ambientale) avrebbe dovuto semplificare le procedure legate a scarichi ed emissioni, ma l’effetto sperato tarda a manifestarsi. Tanto che, stando all’analisi condotta da CNA su 24 distretti della moda, una piccola impresa che operi nel settore tessile può aspettare da 30 a 120 giorni solo per veder indetta la conferenza di servizi, mentre dalla data della convocazione fino alla conclusione del provvedimento possono passare fino a 730 giorni. Vale a dire che nella peggiore delle ipotesi l’impresa potrebbe dover attendere 850 giorni prima di vedersi autorizzata ad effettuare operazioni di recupero. Più di due anni, contando almeno 30 adempimenti e un costo d’istruttoria che si aggira intorno ai 2500 euro.

Ma i problemi non finiscono di certo con il rilascio del nulla osta. Perché terminata la via crucis dell’autorizzazione, comincia infatti quella dell’interpretazione del dettato normativo, spesso lacunoso se non addirittura contraddittorio. Soprattutto in materia di gestione degli scarti di produzione, che nel settore tessile rappresentano spesso una preziosa risorsa da reimmettere nel ciclo produttivo, come nel caso dei pellami. Nell’applicare la disciplina sui sottoprodotti, fondamentale perché consente di ridare vita a uno scarto senza gestirlo come rifiuto, l’80% delle imprese intervistate ha dichiarato di aver avuto problemi legati alla complessità della normativa, alle difformità interpretative degli organi di controllo e alla difficoltà a gestire la documentazione necessaria a dimostrare che gli scarti recuperati rispondono effettivamente ai parametri che qualificano un sottoprodotto. Il risultato è che l’80% degli scarti viene gestito come rifiuto. E a questo punto le cose, se possibile, si fanno ancora più complicate. E costose.

Per gestire correttamente i rifiuti infatti, bisogna ‘classificarli’, ovvero dargli un nome, o meglio un codice (dall’Elenco europeo dei rifiuti), sulla base della loro natura merceologica e della loro pericolosità o meno. Per farlo non sempre è necessario eseguire delle analisi chimiche sul campione di rifiuto (spesso possono bastare anche informazioni già in possesso del produttore, come le schede di sicurezza delle componenti chimiche utilizzate o i dettagli del processo produttivo) ma dall’indagine della CNA è emersa la tendenza sempre più diffusa sul territorio nazionale a un approccio ‘cautelativo’ soprattutto da parte degli enti di controllo “che richiedono sempre più spesso e con tempistiche diverse al produttore del rifiuto di produrre un certificato di analisi anche laddove non necessario”. Il che significa spendere tra i 200 e i 300 euro per ogni analisi, ai quali si aggiungono i 500 euro annui che in media occorrono per fare fronte alla tenuta degli adempimenti cartacei necessari a garantire la tracciabilità dei rifiuti. Contando tutti i costi connessi alla gestione ‘documentale’ dei rifiuti, secondo la CNA in alcune aree del Paese si arriva a superare i mille euro annui.

“Dai dati ottenuti nell’indagine – scrive la CNA – si comprende che le imprese cercano di districarsi nel labirinto di norme e adempimenti richiesti per attuare politiche sostenibili ma con tanti dubbi e pochi riconoscimenti” e il risultato è che “gli ingenti costi da sostenere fanno perdere competitività al settore rispetto ai competitors stranieri”. Ecco perché l’associazione chiede l’urgente adozione di misure di semplificazione che vadano dal taglio dei tempi delle istruttorie per il rilascio delle autorizzazioni alla razionalizzazione della disciplina del sottoprodotto e degli adempimenti legati alla classificazione dei rifiuti, ma anche l’emanazione di un decreto ‘end of waste’ per gli scarti tessili e della lavorazione dei pellami. Oltre a sburocratizzare però, spiega CNA, serve anche favorire iniziative di simbiosi industriale, campagne di sensibilizzazione per produttori e cittadini sui benefici dell’economia circolare e lo sviluppo di una adeguata dotazione impiantistica che agevoli la gestione dei rifiuti riducendone i costi.

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