Edo Ronchi: “Per fare il salto di qualità c’è bisogno di un rafforzamento del supporto tecnico per l’accesso alle risorse”
Raggiungere la neutralità climatica al 2050 non sarà di certo un’impresa semplice, ma è necessario agire subito per vincere la sfida. Non mancano, dal canto loro, le città impegnate in prima linea nel processo di decarbonizzazione e tanta è la volontà di raggiungere i target sfidanti dell’Ue. Ne è un esempio il Patto dei Sindaci, un’esperienza lanciata nel 2008 dalla Commissione Europea per coinvolgere le città firmatarie nella lotta alle emissioni di gas serra con la presentazione di PAESC idonei, i Piani d’azione per l’energia sostenibile e il clima. Un progetto che ha raccolto grande adesione in Italia con la partecipazione di 4608 comuni. Patto che, però, deve essere aggiornato, fa sapere Edo Ronchi, alla luce dei nuovi target europei del – 55% di emissioni al 2030, della neutralità climatica al 2050 e in vista delle riforme che saranno messe a disposizione dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. “È chiaro che la volontà di partecipazione in Italia è stata molto ampia, ma i PAESC sono stati limitati e i risultati più bassi. Per fare il salto di qualità c’è bisogno di un rafforzamento del supporto tecnico per l’accesso alle risorse”, spiega Edo Ronchi, Presidente Fondazione Sviluppo Sostenibile.
Un impegno, quello della Commissione Europea, che non si ferma neanche davanti alle difficoltà di tipo tecnico-amministrativo che sembrano caratterizzare il Patto dei Sindaci sul fronte Italia. Nasce, infatti, il Green City Accord, lanciato dall’Ue, che impegna i Sindaci firmatari delle città europee ad affrontare 5 principali aree di gestione ambientale: aria, acqua, biodiversità, economia circolare e rumore. Ad oggi sono 33 le città che hanno aderito, di cui solo una italiana. Un quadro, dunque, che mostra anche in questo caso profonde criticità da parte del Paese. “Rispetto ai 10mila del Patto dei Sindaci – sostiene Claudia Fusco della Commissione Europea – noi abbiamo una quarantina di città che hanno aderito. C’è solo una città italiana, Cesena e sono contenta di sapere che questo network sosterrà l’iniziativa. Comunque, il progetto va avanti e vediamo dove possiamo arrivare”.
E allora, a che punto sono le città impegnate in prima linea nel processo di decarbonizzazione? A fare il punto della situazione i dati emersi dal rapporto Ispra per il Green City Network secondo il quale rispetto al target di riduzione di emissioni del 20% al 2020, il 29,3% delle città italiane aderenti al Patto dei Sindaci risulta fermo alla sola fase di adesione, il 48,8% ha presentato un PAES e il 21,9% ha avanzato almeno un rapporto di monitoraggio. Non migliora la situazione rispetto al target del -40% di emissioni al 2030, i cui numeri, purtroppo, sono ancora limitati: 323 Comuni sono fermi alla fase di adesione, 325 hanno presentato un PAESC e solo 89 hanno inoltrato almeno un rapporto di monitoraggio. “C’è stata una certa difficoltà da parte dei Comuni di taglia piccola nell’aderire all’iniziativa – spiega Federico Brocchieri, Ispra – in particolare di quelli con popolazione inferiore ai 3mila abitanti. Questo suggerisce un collegamento con la complessità organizzativa dei Comuni stessi, in termini di personale e di competenze tecniche”.
Criticità che, però, sembrano coinvolgere anche grandi città come Napoli dove si sta investendo in progetti di contrasto alle emissioni inquinanti in atmosfera con misure come il Green Public Procurement, ovvero gli acquisti verdi della pubblica amministrazione che hanno richiesto, però, un importante impegno sul fronte della formazione tecnico-amministrativa. “Abbiamo promosso formazione per i dirigenti per il GPP – chiarisce l’assessore all’ambiente del Comune di Napoli, Raffaele Del Giudice – perché i funzionari comunali non venivano coinvolti da tempo in attività di questo tipo. Formazione molto apprezzata e gratuita grazie al contributo di una rete di stakeholder, necessaria per favorire un aggiornamento delle nostre centrali di committenza per accedere a future gare che abbiano nei propri disciplinari tecnici i cosiddetti criteri ambientali minimi”.