Riciclo: il Ministero fa chiarezza sulle autorizzazioni ordinarie

di Luigi Palumbo 05/07/2016

Non occorre attendere l’entrata in vigore di specifici criteri end of waste comunitari o ministeriali per rilasciare autorizzazioni ordinarie agli impianti di riciclo. Le Regioni – o gli altri Enti delegati – possono infatti procedere, nelle more dell’adozione di disposizioni specifiche, all’individuazione caso per caso dei criteri di fine rifiuto sulla base delle disposizioni generali end of waste contenute nell’articolo 184-ter del Testo unico ambientale, introdotte nel 2010 all’atto del recepimento della direttiva quadro europea sui rifiuti del 2008. Lo ha chiarito una circolare ministeriale datata 1 luglio ed inviata alle Regioni dalla Direzione generale rifiuti del Ministero dell’Ambiente.

Nell’Italia patria della burocrazia e di un ambientalismo troppo spesso integralista, aprire un nuovo impianto di riciclo non è mai stata cosa semplice. Negli ultimi tempi, però, era diventata addirittura una missione impossibile, visto che a complicare ulteriormente il quadro ci si era messa pure la scarsa predisposizione degli Enti locali a dare lettura coerente delle normative vigenti quando di mezzo ci sono i rifiuti. La circolare del Ministero mette infatti fine ad uno stallo durato quasi due anni, da quando cioè nell’agosto del 2014 era entrata in vigore la legge 116, che assieme ad una serie di misure per il rilancio e lo sviluppo delle imprese previa semplificazione dei procedimenti autorizzativi, aveva stabilito un termine di sei mesi perchè le imprese autorizzate al riciclo – sia in forma ordinaria che semplificata – adeguassero le proprie attività alle disposizioni in materia di end of waste stabilite da appositi regolamenti comunitari o ministeriali su specifici flussi di rifiuti.

Misura che puntava a garantire alle imprese un periodo “cuscinetto” per adeguare attività ed autorizzazioni all’eventuale entrata in vigore di nuove e più specifiche disposizioni sul recupero di materia da rifiuti, ma che, con un pizzico di zelo di troppo, gli Enti locali hanno fino ad oggi interpretato come un divieto ad adottare criteri end of waste caso per caso per le attività di riciclo non disciplinate da regolamenti comunitari o ministeriali. I regolamenti tanto attesi dagli Enti locali, inutile dirlo, non hanno ancora visto la luce, eccezion fatta per rottami ferrosi, vetro, rame e, solo in parte, per i combustibili solidi da rifiuto. E così, mentre per le attività di riciclo svolte in regime semplificato hanno continuato a fare fede due decreti ministeriali emanati nel 1998 e nel 2002, sul fronte delle autorizzazioni ordinarie, quelle cioè rilasciate da Regioni o dagli Enti da queste delegati a valle di un complesso iter burocratico, tutto si era bloccato in attesa, secondo le autorità competenti, di precise istruzioni da Bruxelles e dal Ministero.

Tutto questo sebbene il potere di concedere autorizzazioni ordinarie alle attività non incluse tra quelle “semplificate”  fosse stato ampiamente riconosciuto dal legislatore agli stessi Enti locali con l’articolo 214 comma 7 del Testo unico ambientale. Senza dimenticare che la stessa Ue nel documento “Guidance on the interpretation of key provisions of Directive 2008/98/Ec on waste” stabilisce che in assenza di regolamenti comunitari i criteri end of waste possono essere stabiliti anche caso per caso dalle singole autorità competenti al rilascio delle autorizzazioni. Ciononostante, buona parte delle autorità ha comunque scelto di interrompere la concessione di autorizzazioni ordinarie alle attività di riciclo se non incluse tra quelle contemplate dai singoli regolamenti end of waste già vigenti. Scelta dalle conseguenze pesantissime, visto che, come spiega la circolare, in caso di mancato rilascio dell’autorizzazione “le operazioni condotte nell’impianto non determinano la cessazione della qualifica di rifiuti e i materiali da questi trattati dovranno essere sottoposti ad ulteriori trattamenti presso impianti autorizzati per ottenere tale status”. Con tutto quanto ne consegue sul fronte dei costi, economici ed ambientali.

La circolare chiarisce invece che “in via residuale, le Regioni – o gli enti da queste individuati – possono, in sede di rilascio dell’autorizzazione prevista agli articoli 208, 209 e 211, e quindi anche in regime di autorizzazione integrata ambientale (Aia), definire criteri EoW previo riscontro della sussistenza delle condizioni indicate al comma I dell’articolo 184-ter, rispetto a rifiuti che non sono stati oggetto di regolamentazione dei succitati regolamenti comunitari o decreti ministeriali”. Anche perchè, prosegue la circolare, l’interpretazione fin qui data dagli Enti locali “escluderebbe la possibilità di definire i criteri EoW per il cosiddetto singolo caso, ossia mediante l’autorizzazione ordinaria disciplinata agli articoli 208 e seguenti del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152” e “porrebbe il nostro ordinamento interno in contrasto con la direttiva 98/2008/Ce, la quale, indirizzando gli Stati membri dell’Unione europea verso l’obiettivo della ‘società del riciclaggio’, ha definito in capo agli stessi i compiti e le modalità per il perseguimento di che trattasi, tra cui la definizione dei criteri EoW mediante la procedura caso per caso”.

Un errore di interpretazione, quello rilevato dal Ministero, che oltre ad esporre il Paese al rischio dell’apertura di una nuova procedura d’infrazione europea, negli ultimi mesi aveva sortito conseguenze pesanti sia sul fronte economico che su quello ambientale, dividendo di fatto l’Italia in regioni dove era possibile aprire nuovi impianti di riciclo in autorizzazione ordinaria e regioni dove, invece, questo non era più possibile. Alla faccia della concorrenza e della transizione verso un’economia circolare. E con il rischio che i rifiuti di fatto non più riciclabili prendessero altre e meno sostenibili strade. Una paralisi durata poco meno di due anni alla quale, auspicabilmente, il chiarimento fornito dal Ministero dell’Ambiente pare finalmente giunto a mettere fine.

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