Car Fluff: uno studio per raggiungere target europei di recupero

di Redazione Ricicla.tv 12/12/2017

Ogni anno in Italia i veicoli giunti a fine vita generano circa un milione di tonnellate di rifiuti. Secondo Eurostat nel 2015, i livelli di riciclaggio/recupero raggiungono l’84,6% del peso medio del veicolo, quasi in linea con il target dell’85% previsto per il 2015. La situazione peggiora se volgiamo l’attenzione agli obiettivi di recupero totale:  l’Italia è decisamente lontana dal target del 95% previsto al 2015, si ferma ad una percentuale pari 84,7%.  Una soluzione sarebbe il recupero del car fluff, ossia la frazione leggera che deriva dalla frantumazione delle autovetture, che costituisce una quota significativa del peso delle auto (fino al 20%) e che oggi in Italia finisce prevalentemente in discarica (nel 2015 l’88% del car fluff è finito nelle discariche autorizzate e distribuite in 10 regioni italiane).

Eppure le soluzioni al recupero della frazione leggera, esistono, così come esistono ampi margini di miglioramento delle tecnologie disponibili. A.I.R.A. Associazione Industriale Riciclatori Auto, insieme a Fondazione per lo Sviluppo sostenibile, ha presentato a Roma il primo studio che esamina lo stato dell’arte nel nostro Paese e individua ipotesi risolutive al problema. Il primo passo  da fare è far sì che l’intera filiera si attenga scrupolosamente alle prescrizioni previste dal D.lgs. 209/2003, durante le varie fasi di trattamento dei veicoli fuori uso: messa in sicurezza, demolizione e frantumazione.

Tutte le operazioni attinenti alla messa in sicurezza del veicolo, lo smontaggio delle componenti riutilizzabili, la rimozione degli pneumatici, dei grandi componenti di plastica, dei vetri e del catalizzatore, sono operazioni che vanno necessariamente eseguite presso l’impianto di demolizione e risultano fondamentali per conseguire le performance di legge. Dalle successive operazioni di frantumazione dei veicoli, si genera il  car fluff. Il fluff è composto da una frazione leggera che ammonta a circa il 90% del peso totale del fluff generato nel processo.

In Italia allo stato attuale, è meno costoso smaltire in discarica questa componente piuttosto che in impianti ad hoc. Tra l’altro i pochi esistenti incontrano difficoltà di accettazione da parte delle comunità locali. Una via di sbocco potrebbero essere allora i cementifici (come avviene in Spagna, Belgio e Scandinavia). Ma anche in questo caso, se alcuni test hanno dimostrato un’ottima performance energetica, dall’altro hanno evidenziato  la necessità di ridurre la concentrazione del cloro e di alcuni metalli presenti nel car fluff, che potrebbero rappresentare un problema per il processo e per il prodotto finale (il cemento).

«I frantumatori italiani stanno provando a dotarsi di altissime tecnologie basate sulla raffinazione che isola le frazioni leggere e lascia il residuo finale sostanzialmente senza metalli – ha spiegato Emiliano Cerluini, responsabile HSE del Gruppo Fiori, che poi aggiunge – Una parte del materiale di scarto in uscita da questo impianto è un prodotto con altissimo potere calorifico che potrebbe essere sfruttato per la generazione di energia elettrica».

Ma lo studio ha messo in evidenza anche un’altra criticità da superare per il recupero del 95% dei veicoli: il legislatore comunitario ha disposto che gli Stati membri provvedano a definire la disciplina interna seguendo un modello basato sulla cosiddetta responsabilità estesa del produttore (EPR).

«È necessario partire da questo studio per affrontare sin da subito questi problemi – ha dichiarato Mauro Grotto, presidente Aira e promotore dello studio – infatti, molto probabilmente già a partire dal 2018, il modello di governance della gestione dei veicoli fuori uso dovrà essere aggiornato. Le proposte di riforma oggi in discussione impongono che i regimi EPR debbano rispettare dei criteri minimi in tutti gli Stati membri e dispongono che ad essi debbano adeguarsi anche i produttori di veicoli o loro componenti. Aira è pronta a farlo e a collaborare con l’intera filiera per raggiungere quegli standard che l’Europa ci impone».

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