Dalla violenza alla finanza: l’evoluzione delle ecomafie

di Giuseppe De Stefano 09/03/2016

Tra 2014 e 2015 il numero di reati per traffico illecito di rifiuti iscritti presso gli uffici della direzione distrettuale antimafia è passato da 123 a 113: una discrepanza insufficiente a segnare l’inversione di un trend e che, anzi, lo riconferma. La criminalità ambientale, dunque, continua ad essere un fenomeno collegato a quello dell’associazione di stampo mafioso, o comunque ad inscriversi nelle sue dinamiche in evoluzione.

Un’evoluzione che in termini macroscopici non vede certo più le imprese affidarsi all’organizzazione malavitosa come esclusivo riferimento per disfarsi dei rifiuti prodotti come avvenuto fino all’inizio degli anni 2000 (quando il neologismo “ecomafie” ha iniziato ad entrare nel vocabolario corrente) sostituite da un non migliore atteggiamento più diffuso e direttamente criminale delle stesse imprese «come se rispettarle (le regole, nda) costituisse un insopportabile gravame […] sì da non consentire loro di fruire di profitti; e quindi la violazione della legge si trasforma in un indispensabile rimedio per conseguire quello scopo». Parole e dati vengono dalla relazione annuale sulle attività svolte dalla Direzione nazionale antimafia (e antiterrorismo) nel periodo tra il primo luglio 2014 e il 30 giugno 2015, presentata lo scorso giovedì 3 marzo dallo stesso Procuratore nazionale antimafia, Franco Roberti, introdotto dalla Presidente della Commissione Parlamentare antimafia, Rosy Bindi.

Uno dei punti più interessanti della relazione in materia di crimini ambientali, o a questo punto di ecomafie, è il passaggio dedicato dalla relazione alle indagini in corso di svolgimento: la gestione illecita dei rifiuti non seguirebbe più le rotte degli scorsi decenni, e cioè da Nord a Sud, bensì quella inversa, quindi dal Mezzogiorno al Settentrione. Fenomeno da ascriversi alla decadenza di tutti quei fenomeni che, a partire dai riflettori accesi sulla Terra dei Fuochi, sono diventati di dominio pubblico: la Camorra intesa come organizzazione criminale si è ormai per lo più sfilata da certi affari, attenzionati dall’opinione pubblica quanto dalle forze dell’ordine, e quindi pur restando una gestione non sempre trasparente dei traffici questa rimanda soprattutto ad imprenditoria deviata (che rappresenta il “cambio pelle” delle centrali di quelle compagini di tipo mafioso che hanno sostituito il potere finanziario a quello delle armi e più in generale al monopolio della violenza).

Anche l’altro fronte classico, quello dei traffici transfrontalieri, è venuto meno (grazie all’efficacia dell’attività repressiva da parte delle Autorità doganali sia nostrane che cinesi, principali destinatari di quei traffici). Questo, evidentemente, non significa che siano state debellate le ecomafie, ma che queste siano cambiate e che i loro comportamenti si siano evoluti per sfuggire ai radar dei controllori. In particolare pare che si sia sviluppato lo sfruttamento “inaspettato” del Nord: non è ancora chiaro – e a dirlo saranno le stesse inchieste pendenti della DDA – se ciò sia da ascriversi ad uno spostamento “geografico” dell’intelligence criminale o ad una devianza interna alle poche grandi aziende che gestiscono il territorio settentrionale in regime di oligopolio.

Secondo la relazione una prima controprova di questa netta inversione di tendenza si troverebbe proprio nell’analisi dell’evoluzione del dato mediante il computo di reati su base territoriale. Dal 2013/2014 al 2014/2015 i reati di traffico illecito iscritti alla DDA sono rimasti invariati al Nord (40), sono aumentati al Centro (da 27 a 30) e diminuiti al Sud (da 52 a 42) e nel distretto di Cagliari (da 4 a 1). Un traffico che «varca gli ambiti circondariali, sì da dover necessariamente cadere sotto il controllo dell’organo di coordinamento nazionale», ma che – denuncia il rapporto – insieme a tutti gli altri illeciti di stampo ambientale vede da parte delle varie direzioni distrettuali (anche le più importanti) una sensibilità ed un impegno minori rispetto alla consueta attività di controllo e di indagine. «Quasi essi fossero discendenti da una divinità minore – si legge – e quindi non meritevoli di dispendi di energie. E lo stesso può dirsi per i servizi di polizia giudiziaria che, in questo settore che richiederebbe professionalità elevatissime, non schierano le forze che vengono utilizzate in altri settori».

Al netto del fenomeno delle ecomafie e quindi dei reati che coinvolgono organizzazioni illecite, la complessa normativa nostrana e relativi crimini a cavallo tra reato, contravvenzione ed evasione fiscale in materia meriterebbero un coordinamento di intelligence e controlli sul campo da parte di tutte le forze dell’ordine che non sempre si riesce ad applicare: la stoccata dell’antimafia sembra suggerire che a volte questa sia una scelta consapevole in seno agli organi decisionali. Scelta che – a fronte di emergenze che costellano ormai l’intero territorio nazionale – meriterebbe di essere ripensata e riequilibrata.

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