Imballaggi, in Italia ne riutilizziamo più di 2 milioni di tonnellate

di Luigi Palumbo 16/12/2022

Il 16% degli imballaggi sul mercato italiano viene riutilizzato, ma la spinta data dal nuovo regolamento europeo potrebbe rivelarsi un boomerang. Non solo per l’economia del riciclo, ma anche per l’ambiente

La ferma opposizione dell’Italia alla proposta di regolamento europeo sugli imballaggi non è figlia di un ‘no’ pregiudiziale alle pratiche di riuso. Né tanto meno della loro assoluta inconciliabilità con i sistemi industriali di riciclo. Anche perché, pur vedendoci primi in Europa per capacità di riciclo del packaging (73,3% dell’immesso a consumo), i numeri dicono che di imballaggi ne riutilizziamo pure noi un bel po’. Oltre 2 milioni 300mila tonnellate, tra pallet in legno, cassette e cassoni in plastica, fusti e cisternette e, naturalmente, bottiglie di vetro: 266mila le tonnellate di contenitori per acqua minerale e birra restituiti con il vuoto a rendere nel 2021. Complessivamente, si legge nell’ultima edizione del rapporto ‘L’Italia del riciclo’ presentato oggi, quelli riutilizzati rappresentano il 16% degli imballaggi sul mercato. Non tantissimi, ma neppure pochi. “Il problema – ha chiarito Katia Da Ros, vicepresidente di Confindustria – è che il nuovo regolamento stabilisce obiettivi di riuso così elevati da non lasciare scampo: o fai il riuso o il riciclo“.

“Il nuovo regolamento – ha spiegato il presidente della Fondazione per lo sviluppo sostenibile Edo Ronchi – dovrebbe consentire di aumentare le quantità di imballaggi riutilizzati con sistemi decentrati e flessibili di restituzione come quelli che stiamo già utilizzando”. E invece rischia di vincolare il Paese all’adozione di modalità di produzione, utilizzo e gestione del fine vita degli imballaggi che potrebbero rivelarsi un boomerang. Non solo per l’economia del riciclo, ma anche per l’ambiente. Tra i principali punti di criticità, secondo Ronchi, ci sono i target vincolanti di riutilizzo di contenitori per bevande (20% al 2030 e 80% al 2040) e per cibi da asporto (10% al 2030 e 20% al 2040) che “per lavaggi accurati, la sterilizzazione efficace e l’asciugatura richiesti” comporterebbero un elevato consumo di acqua e di energia in una fase storica segnata da crisi profonde su entrambi i fronti. “Oggi calcoliamo la carbon footprint di un’attività industriale – ha sottolineato Da Ros – ma presto calcoleremo anche la water footprint. Da questo punto di vista manca la prova della maggiore sostenibilità del riutilizzo rispetto al riciclo”. Senza dimenticare che la sostituzione degli imballaggi monouso, soprattutto di quelli in carta e cartone (oggi riciclati all’85%), comporterebbe “nella stragrande maggioranza dei casi – dice Ronchi – la sostituzione con imballaggi multiuso in plastica”, che a loro volta richiedono maggiori quantità di energia e quindi anche di emissioni di CO2.

A i dubbi sugli effettivi benefici ambientali dei target vincolanti di riuso degli imballaggi si aggiungono quelli relativi all’efficacia del nuovo regime di gestione del fine vita, quello della restituzione con deposito (o DRS), che gli Stati membri dovranno mettere a punto obbligatoriamente per gli imballaggi per liquidi alimentari in plastica e metalli entro il 2029. Un “meccanismo complicato”, dice Ronchi, che sostituirebbe quello attualmente in vigore nel nostro Paese, basato sulla raccolta differenziata finanziata con il contributo ambientale versato da produttori e utilizzatori di imballaggi. Un cambio di regime che secondo il presidente della Fondazione andrebbe subordinato solo al mancato raggiungimento, entro il 2030, del 90% di raccolta “indipendentemente dalle modalità di raccolta”.

“Se l’obiettivo è quello di evitare che i rifiuti vadano in discarica o finiscano dispersi nell’ambiente – ha commentato il presidente di Conai Luca Ruini – serve maggiore flessibilità sulle modalità per poterlo raggiungere, che sia il riuso o il riciclo. Quando parliamo di sostenibilità parliamo di soluzioni che si adattino al contesto – ha detto – ma l’impressione è che la proposta di regolamento provi a forzare l’introduzione dei modelli attualmente in uso in Paesi più piccoli del nostro, tipicamente del Nord Europa“. Eppure, nel confronto con gli altri Paesi UE, il modello italiano nato venticinque anni fa con il recepimento del pacchetto di direttive europee su rifiuti e imballaggi trasposte nel ‘decreto Ronchi’, e oggi primatista europeo con il 73,3% di riciclo, “è uno di quelli che ottiene i migliori risultati al minor costo – ha aggiunto Ruini – proprio per la capacità del modello di adattarsi rispetto al contesto, che nel nostro Paese è diverso dagli altri. Siamo poveri di materie prime ed è per quello che il riciclo è sempre stato rilevante per noi, già da prima che fosse disciplinato dalle direttive europee”.

La Commissione UE, dal canto suo, risponde chiarendo che la proposta di regolamento non è scritta sulla pietra. “È solo l’inizio di una partita di calcio – spiega Mattia Pellegrini, membro della direzione generale ambiente dell’esecutivo di Bruxelles – un processo di co-decisione tra Parlamento e Consiglio che dura anni. Il nostro ruolo sarà quello di fornire supporto alle trattative. Le criticità sollevate dall’Italia – ha detto – riguardano sostanzialmente due articoli sulle decine e decine che compongono il regolamento. Segno che l’impianto complessivo della norma è largamente condiviso”. “Ci aspettiamo una sospensione del regolamento, perché sono diversi i punti da rivedere e ammorbidire – ha commentato Da Ros – siamo sicuri che si possa arrivare a una soluzione che consentirà di non buttare all’aria venticinque anni di eccellenza, fatti di innovazione e investimenti”.

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