Fanghi, quel “giacimento” che l’Italia non sa sfruttare

di Luigi Palumbo 04/03/2018

Saranno anche poco gradevoli alla vista e all’olfatto, ma se opportunamente gestiti possono trasformarsi in una risorsa preziosissima per i nostri terreni, in un risparmio da 100 milioni all’anno per chi li coltiva e in bollette dell’acqua meno “salate” per i cittadini. Peccato che ritardi strutturali e un quadro normativo vecchio di più di un quarto di secolo ne impediscano il pieno sfruttamento. Parliamo di fanghi, ovvero il residuo solido del processo di depurazione degli scarichi fognari delle nostre case. Nelle ultime settimane, complici le inchieste giornalistiche e giudiziarie su rifiuti e corruzione in Campania, l’argomento è entrato di prepotenza nelle nostre conversazioni. Cosa che rende necessaria una fondamentale premessa: la produzione di fanghi, diversamente da quanto molti potrebbero pensare, non è un male di per sé. Anzi, più se ne producono e meglio è, visto che la loro quantità è misura diretta dell’efficacia dei processi di depurazione. È il modo in cui li si gestisce a fare la differenza. Ma andiamo con ordine.

Secondo l’ultimo dossier Ispra sui rifiuti speciali, nel 2015 i fanghi prodotti dal trattamento dei nostri reflui sul territorio nazionale hanno superato di poco i 3 milioni di tonnellate. Si tratta di rifiuti speciali non pericolosi e la la loro gestione rappresenta il capitolo di spesa più rilevante per un impianto di depurazione, tra il 15 e il 40% del costo complessivo del processo. Si va dai 50-70 euro a tonnellata per l’avvio ad un impianto di recupero fino ai 140 per lo smaltimento in discarica. Secondo Utilialia, la federazione delle imprese pubbliche di acqua, energia e rifiuti, la gestione dei fanghi costa ogni anno tra i 5 e i 7 euro ad abitante. Costo che viene caricato sulla tariffa idrica che ogni cittadino versa al proprio gestore locale. Il che significa che più è efficiente la gestione dei fanghi, meno salata sarà la bolletta. Ma che fine fanno gli scarti della depurazione una volta usciti dagli impianti di trattamento delle acque? Finiscono tutti in discarica a costi stellari come nel controverso caso dei depuratori campani? No, tutt’altro, visto che i fanghi, da semplice voce di costo, possono trasformarsi in una preziosa risorsa.

A confermarlo è l’ultimo Rapporto Ispra sui rifiuti speciali, stando al quale nel 2015 solo 387mila tonnellate risultano smaltite in discarica, mentre più di 1 milione 300mila tonnellate sono state avviate ad operazioni di recupero. Già, perché le sostanze contenute nei fanghi (carbonio, azoto, fosforo, zolfo e potassio, tra le altre) sono nutrienti ideali per i terreni agricoli, e anzi rappresentano un ottimo antidoto alla rapida desertificazione di una fetta sempre più ampia del nostro territorio. I numeri, però, dipingono uno scenario in chiaroscuro. Perché nonostante le proprietà fertilizzanti dei fanghi, sul totale avviato a recupero nel 2015 solo 324mila tonnellate sono finite direttamente su suoli agricoli e solo in sette Regioni, Lombardia in testa. Il resto è stato avviato ad impianti di trattamento, comprese 323mila tonnellate trasformate in ammendante dagli impianti di compostaggio.

Eppure, secondo uno studio realizzato dalla multiutility A2A, l’uso diretto in agricoltura di un milione di tonnellate di fanghi stabilizzati ed essiccati garantirebbe un risparmio di ben 38 milioni di euro sull’acquisto di concimi industriali a base di azoto e fosforo. Che diventerebbero più di 100 se tutti i fanghi prodotti in un anno dalla depurazione civile fossero avviati allo spandimento sui suoli agricoli. Insomma, il fango buono fa bene alla terra, alle tasche degli agricoltori e anche a quelle dei contribuenti, che potrebbero giovare dei risparmi in bolletta garantiti dal taglio netto ai costi di gestione dei fanghi. Spanderli direttamente su suolo agricolo, infatti, costerebbe meno che avviarli a ulteriore trattamento. Lo sanno bene in Europa, dove il cosiddetto spandimento in agricoltura è una pratica più che consolidata, tanto che in Francia sono al 70%, mentre in Gran Bretagna già nel 2010 finiva dritto dritto a concimare i campi l’80% dei residui della depurazione civile. Ma allora perché non utilizzare anche noi lo scarto della depurazione direttamente sui campi, piuttosto che pagare per trattarlo e, alla fine, trasformarlo comunque in fertilizzante?

La risposta non può essere univoca. Quel che è certo è che alla base di tutto vanno posti i pesanti ritardi del sistema italiano di gestione degli scarichi fognari. Che non a caso è oggetto di ben tre procedure d’infrazione presso la Commissione Europea, a danno di più di cento agglomerati urbani da Nord a Sud dello Stivale. Due delle procedure sono già giunte alla prima sentenza di condanna da parte della Corte di giustizia Ue. Da un momento all’altro, quindi, potrebbero scattare le temutissime sanzioni pecuniarie: secondo stime, la stangata potrebbe sfiorare i 60 milioni, più multe quotidiane da 350mila euro. Tra i vari capi d’accusa anche la scarsa qualità della depurazione e, di conseguenza, la scarsa qualità dei fanghi. Sotto la lente dell’Ue il ritardo infrastrutturale di moltissime Regioni, un lungo elenco di opere mai realizzate e impianti vecchi e malandati. Come quelli campani, nei quali sono quasi completamente assenti le linee di trattamento dei fanghi. Linee necessarie, ad esempio, alla loro biostabilizzazione, ovvero a ridurne la carica batterica, l’umidità e, con essa, il rischio che le sostanze organiche presenti nel rifiuto vadano incontro a putrefazione provocando danni alla salute dell’uomo e all’ambiente. Va da sé che un fango in questo stato deve necessariamente essere sottoposto ad ulteriore trattamento. Che significa pagare il costo di conferimento all’impianto e anche quello per il trasporto. E addebitare il tutto in bolletta ai cittadini.

Ma anche chi produce fanghi potenzialmente compatibili con lo spandimento in agricoltura non se la passa poi così bene. E questo a causa del far-west amministrativo scatenato negli ultimi anni da un quadro normativo che definire vetusto è dire poco. Il decreto che regolamenta lo spandimento, dettando i parametri chimici, fisici e biologici in virtù dei quali i fanghi possono essere considerati compatibili con l’uso in agricoltura, risale infatti al 1992. Cioè a più di un quarto di secolo fa. Ritenendolo datato, e quindi non rispondente ai criteri tecnici e alle conoscenze scientifiche più aggiornate, molte regioni e province hanno deciso di fare da sé, vietando totalmente lo spargimento dei fanghi o imponendo prescrizioni tecniche estremamente restrittive. Ed ecco perché una quantità sempre maggiore di scarti della depurazione prende la via degli impianti di compostaggio, dove viene trasformata in fertilizzante “aggirando” così i limiti imposti dalle regioni. Come in Toscana, o in Lombardia, dove 51 comuni delle province di Pavia e Lodi hanno recentemente fatto ricorso al Tar impugnando la legge regionale che dallo scorso anno impone severe restrizioni allo spandimento.

E se da un lato l’altolà degli enti locali appare dettato dal timore, più che legittimo, che sui campi possano finire, magari in maniera dolosa, fanghi non opportunamente trattati o contenenti addirittura sostanze inquinanti o tossiche, dall’altro però questo eccesso di prudenza rischia invece di tradursi in un’occasione persa. Per tutti: per i terreni, sempre più poveri di sostanze preziose come il carbonio, che invece costituisce il 50-60% dei fanghi, per gli agricoltori, costretti a pagare per acquistare fertilizzanti artificiali, e anche per i cittadini, che con la tariffa idrica coprono i costi di gestione (e le inefficienze) dei depuratori. Anche per questo lo scorso novembre è approdato in aula al Senato un disegno di legge che conferisce al governo la delega per aggiornare, dopo più di venti anni, la normativa in materia di utilizzo dei fanghi in agricoltura e tentare di uniformare la regolamentazione della pratica a livello nazionale. Difficile che possa essere approvato prima dello scioglimento delle camere. Non resta che sperare nella prossima legislatura.

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