Luigi Palumbo
20/02/2018

Campania, bufera rifiuti: carenza di impianti e malaffare

Ultimo aggiornamento: 1 Febbraio 2018 alle 13:02

Che siano fanghi da depurazione, ecoballe o scarti alimentari, poco cambia. Buona parte dei rifiuti generati ogni anno in Campania dev’essere caricata su camion e spedita altrove per mancanza di impianti. Tra differenziati e indifferenziati, ad esempio, nel 2016 un milione di tonnellate di rifiuti urbani è finito a trattamento in altre regioni o addirittura in altre nazioni. Per non parlare dei rifiuti speciali, quelli prodotti dalle aziende. Il cui trattamento, però, è a libero mercato e quindi non deve necessariamente avvenire nella regione in cui vengono prodotti. Fatto sta che più lungo è il viaggio dei rifiuti, più aumenta la possibilità che lungo il tragitto facciano la loro comparsa broker e intermediari, commercianti e faccendieri, pronti a farsi carico del problema mettendo in campo mezzi e relazioni. E, prima ancora, pronti a far lievitare il prezzo della gestione caricando ognuno la propria percentuale sul costo finale.

Se a tutto questo si aggiunge il regime emergenziale che in Campania ancora accompagna la gestione di particolari frazioni di rifiuto – fatto di affidamenti diretti, proroghe e gestione disinvolta delle risorse economiche, come emerso dalle recenti indagini condotte in parallelo dalla Procura di Napoli e dal sito d’informazione Fanpage.it – ecco servito il cocktail letale. Un cocktail a base di fango. E non solo fango materiale, come quello dei depuratori, ma fango morale, terreno di coltura ideale per il virus del malaffare.

In un settore delicatissimo come quello della gestione rifiuti, poi, l’illecito costa sempre il doppio, perché le sue ricadute sono al tempo stesso economiche ed ambientali. E a farne le spese sono – inutile dirlo – sempre e solo i cittadini. Gli stessi che, esasperati e sfiduciati, scendono sul piede di guerra pronti a dire “no” alla costruzione di nuovi impianti, poco importa che si tratti di un sito di compostaggio, di un biodigestore, di un inceneritore o di una discarica. Senza sapere però che con quel “no” rischiano di contribuire, almeno in parte, a mantenere in vita lo stesso sistema che per anni li ha derubati, mortificati, avvelenati.

Partiamo dalla difficoltà di smaltimento dei fanghi da depurazione, la cui responsabilità è in capo al soggetto gestore degli impiantiNei cinque depuratori campani tuttora gestiti dalla società regionale Sma (Acerra, Napoli Nord, Napoli Est, Marigliano, Marcianise)  i fanghi non vengono biostabilizzati, ovvero non vengono trattati in modo da ridurne umidità e carica batterica. Da qui la crisi dello smaltimento che, negli ultimi mesi, ha portato all’accumulo di tonnellate di materiale nei bilici stoccati sulle piazzole dei depuratori. Se non sono biostabilizzati, infatti, i fanghi da depurazione possono finire solo in poche discariche speciali sparse da Nord a Sud della Penisola, impianti con capacità limitata e costi di trattamento elevatissimi. Cosa che espone il ciclo di gestione dei fanghi agli eventuali “capricci” di un mercato più simile ad un oligopolio che ad un regime di libera concorrenza.

Eppure tutti gli impianti regionali di depurazione sono dotati di linee di digestione anaerobica, utili proprio alla biostabilizzazione dei fanghi e capaci, tra l’altro, di trasformare il gas generato dal processo in energia elettrica. Tutte le linee, però, risultano dismesse sin dai primi anni 2000, come emerge dalla relazione stilata dall’ex commissario di governo Nicola Dall’Acqua. La sezione di recupero del biogas, con relativa produzione di energia elettrica, risultava addirittura dismessa già nel 1994.

Una svolta sembrava essere arrivata nella primavera del 2017 quando, dopo anni di stallo, si erano concluse con una serie di aggiudicazioni definitive le gare d’appalto bandite dalla Regione per la concessione in gestione a ditte private dei cinque depuratori, con la parallela rifunzionalizzazione degli impianti (linee di biodigestione comprese) a carico dei nuovi concessionari. Ma la consegna dei depuratori non è ancora avvenuta. Proprio a causa, pare, delle enormi quantità di fanghi stoccati provvisoriamente che nessuno è in grado di smaltire. Senza biodigestori, liberarsi di quei fanghi diventerà sempre più difficile.

Capitolo rifiuti urbani: nel 2016, circa un milione di tonnellate è finito fuori regione per mancanza di impianti. Partiamo dall’organico da raccolta differenziata: 700mila le tonnellate raccolte in regione. Gli impianti di compostaggio e digestione anaerobica annunciati dalla giunta regionale – almeno 13 in tutto – non hanno però ancora visto la luce. Così, nel 2016, solo un decimo è stato trattato in regione, mentre più di 600mila tonnellate sono finite in Emilia-Romagna, Veneto e Lombardia, tra le altre destinazioni. Ma il viaggio dell’indifferenziato è anche più lungo: delle 305mila tonnellate esportate nel 2016, infatti, circa 74mila tonnellate sono finite in impianti di recupero energetico in giro per l’Europa: in Austria, Bulgaria e Paesi Bassi. Le rimanenti 231mila 428 tonnellate hanno invece trovato collocazione nelle varie Regioni d’Italia, 56mila in discarica e 175mila in inceneritore, queste ultime soprattutto in Lombardia.

Per quanto sia l’impianto più grande nel suo genere a livello nazionale, insomma, l’inceneritore di Acerra ancora non ce la fa a bruciare tutto l’indifferenziato prodotto in Campania nel giro di un anno. E dire che nel solo 2016 ha trasformato in energia circa 725mila tonnellate di pattume urbano. Una quantità enorme. Tanto che, nei nove anni passati dalla sua inaugurazione, l’impianto ha complessivamente evitato l’apertura di sette discariche di medie dimensioni, incenerendo ben 5 milioni e mezzo di tonnellate di rifiuti urbani indifferenziati. Che equivalgono, curiosamente, proprio a quanti ne restano tuttora parcheggiati in forma di ecoballe nei siti di stoccaggio in giro per la regione.

Il piano di smaltimento messo a punto dalla giunta guidata da Vincenzo De Luca, lanciato con grande clamore nella primavera del 2016, procede però a rilento. I maligni insinuano che equivalga a “svuotare il mare con un cucchiaino”. Per adesso è stata avviata solo la prima fase, quella (inutile dirlo) dei trasferimenti fuori regione, che dovrebbe portare allo smaltimento di un milione di tonnellate di balle. Ma il condizionale è d’obbligo, visto che i trasporti avanzano a singhiozzo e che uno dei lotti messi a gara negli ultimi due anni è andato deserto: quello di Villa Literno, da 80mila tonnellate, forse snobbato dalle aziende perchè le condizioni di conservazione delle ecoballe e le difficoltà logistiche legate alla particolare collocazione della piazzola non avrebbero reso sostenibile lo smaltimento al prezzo a base di gara fissato dalla Regione.

Ad ogni modo, una volta terminata la fase dei trasferimenti, resteranno da trattare altre 4 milioni di tonnellate di balle. Il piano prevede per una prima parte la trasformazione in combustibile Css da smaltire nei cementifici, e per una seconda parte il recupero di materia riciclabile con lo smaltimento in discarica di tutto quanto non risulterà recuperabile. Un piano colossale, per portare a termine il quale è prevista l’apertura di tre nuovi impianti (due per il recupero di materia e uno per il combustibile), la trasformazione dell’impianto di tritovagliatura di Caivano con l’aggiunta di una linea di produzione di Css e l’individuazione di cave dismesse da trasformare in discariche per i residui delle operazioni nei quattro impianti. I cittadini annunciano già battaglia. La storia, insomma, sembra tristemente destinata a ripetersi.

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